top of page

Orrore è l'impossibilità di distinguere il desiderio dalla disperazione. E allora si cerca di ucciderlo, questo desiderio, o perlomeno renderlo inoffensivo, devitalizzarlo. Un vero atto contronatura, perché si esiste in quanto si desidera, che si tratti di rincorrere un sogno, aspettare con eccitazione un giorno di festa, pregustare un cibo o semplicemente continuare a respirare. Invece «questo vuole il carcere» scrive Michele Caccamo, «una caduta direzionale verso la noia, la resa su tutto». Allora bisogna svuotarsi, per sopravvivere: «siamo solo a prima vista simili a una qualche umanità. E' più facile pensarci svuotati dagli escavatori di un regno maligno, scaricati, pressappoco morti, qui dentro». Però la vita, incomprensibile e libera, la vita, curiosa delle esplorazioni, la vita, che ha l'imprevedibilità ma anche l'esigenza di sicurezza e abitudine tra le sue regole, è crudelmente, assurdamente tollerante delle più terribili amputazioni, e quindi resiste, non si spegne, non arretra, non si trasforma mai in mero automatismo agli ordini di una mente rassegnata: il desiderio continua a palpitare, si rivela contro ogni mannaia, sanguina ma quando meno te l'aspetti rialza la testa. Ed è disperazione.

Michele Caccamo si muove in questo corto circuito continuo tra bisogno di proteggere la propria integrità e tentativo di autodisintegrarsi assecondando quello che neanche troppo velatamente propone ai suoi ospiti il sistema carcerario. "Si muove": patetica metafora. «Un cubicolo... è una cappella mortuaria con tre cripte dentro; si misura in centimetri. Tre persone insieme, qui dentro, si ostacolano anche solo a stare in piedi, senza muoversi. Abbiamo neanche due metri cubi d'aria a testa. Mi dicono che sono fortunato, in altre celle le cripte sono nove». Eppure, Michele davvero si muove. Quando, nel pieno di una vicenda giudiziaria che l'ha portato dentro e fuori dal carcere in un'altalena di fiducia e depressione, scrive ai figli che nella vita non esistono altro che l'Amore e la Sapienza (e a me ricorda il meraviglioso quaternario dell'anarchico Malatesta: pane, libertà, amore, scienza), che occorre essere nudi e umili, non lasciarsi trascinare dal caos imperante, dal consumismo, dal materialismo, questo uomo umile davvero si muove, e nel modo più efficace, verso quella che a costo del ridicolo chiamerò Verità, con la maiuscola perché è una, come l'Amore, perché se ne ride dei relativismi, e può ricompensare con l'unica cosa che garantisca un sonno sereno e una vita degna - la coscienza pulita - soltanto chi abbia il coraggio di rispettarla, cercarla, praticarla nel pensiero e nelle azioni.

 

E' un poeta, Michele. Per definizione, dato che scrive e pubblica poesie da molto tempo, ma soprattutto perché le sue cronache dal carcere, le sue confessioni, sono di un impatto quasi insopportabile, e insieme risanatore. Sa costeggiare la mortificazione, inabissarcisi dentro, insozzarsi, ma riemergere e anelare ancora alla purezza. I lettori lo seguono, senza incertezze. «Datemi un termine comunemente buono che sia diverso dall'incubo.../voglio sia talmente elevato da pacificare la mia cella come avviene con le invocazioni o con le parole d'Amore». E' un poeta anche quando denuncia il luogo, l'ideologia che c'è dietro, quello che vi accade dentro. Non edulcora, al contrario, atterrisce. Però bastano poche sue frasi per far capire anche a chi di carcere non sappia nulla, e capire profondamente, di che sapore sia quell'inferno. «Il carcere è una mescolanza di vittime. Quale che sia il reato, vero o presunto che sia, veniamo tutti confusi, con follia violenta in un ammasso malvagio: fatto di minacce sguardi bestemmie». «E' qui dentro che avvengono gli addestramenti barbarci. L'aria, durante quelle ore, è una nota di marmo. Inutile per la carne e per le ossa». «E' davvero sottile, quanto improbabile, il riconoscimento individuale. Tanto da essere tutti alla fine una unica identica comunità criminale». «Non resta davvero altro che pensare intensamente di uccidersi: come ancora in tanti si sono dimenticati di fare». «Noi, che almeno questo si sappia, siamo già tutti cadaveri».

Ma la vita è più forte e basta uno scarto, minimo, del desiderio sulla disperazione, affinché tutto ricominci e i cadaveri riaprano gli occhi. Questo deve essere chiaro a chi chiacchiera di fine pena mai, a chi ritiene il carcere una giusta punizione, a chi pensa persino a una riabilitazione attraverso tanta umiliazione, tanto scempio: annullare il desiderio di un domani è impossibile, non è nella natura umana, può produrre soltanto ulteriori atrocità; ma regala a un uomo un po' di fiducia, e sarà capace di prodigi.

«A titolo di risarcimento ritroverò la felicità» scrive Caccamo. Lui, il prodigio, l'ha già compiuto.

 

***

 

Per Franz Krauspenhaar, che è in carcere anche se non c'è, lo spazio intorno è sempre troppo o troppo poco, inutile e irritante, nemico e beffeggiatore. Più spazio ha fuori di sé, più è ingabbiato, costretto. E arrabbiato. E' come se abitasse in un mondo a parte, impossibilitato a entrare in quello in cui gli pare si agitino gli altri, variamente interessanti ma assurdamente non interessati a quella che per lui è l'unica questione degna di essere posta, anzi, vitale: perché non sappiamo?

Non sappiamo nulla ma ci comportiamo come non ci importasse di sapere. Forse ci interessa scoprire dove stiamo andando, dimostrando ancora di più la nostra follia, perché il tema vero è un altro: il prima, cosa ci sia stato, dove, con quale scopo, per quali cause. Eravamo esiliati o eravamo nell'Eden? Questa l'ossessione di Franz, immagino non solo poetica. Con la semplicità dei veri artisti, lui è riuscito a fare non una domanda, ma "la" domanda. Che ci si impone con la forza che hanno soltanto le rivelazioni. E' tutto qui, ha ragione lui. Se solo sapessimo, potremmo trovare un posto, un senso. Sentirci desiderati o ricordare che perlomeno un giorno lo siamo stati. «Oggi, nel dopoguerra d'ogni destino, in questo/infinito dopo, siamo giunti dall'esilio, e nemmeno/sappiamo più da dove». «Non sono il mondo, sono un giro di chiave/nella serratura di un cosmo che rigetta/le sue creature. Oppure siamo stati/scacciati, da tutto. Non lo sappiamo».

Essere liberi dipende da questo. Forse. Una volta lo eravamo o perlomeno credevamo di esserlo. No, lo eravamo davvero e poi non più, non oggi. Terribile avere sensazioni così contraddittorie che ogni volta si stagliano come vere in mezzo al nulla, alla sofferenza, alla solitudine. E questo è il cortocircuito di Krauspenhaar: voler sapere e trovare risposte sempre ugualmente veridiche e prepotenti, che sconfessandosi l'una con l'altra traumatizzano, perché non sono semplici teorie, pensieri, elucubrazioni filosofiche, ma vita, corpo. «Volevo imparare ad essere lì anch'io/ma la mia carne non si sposta più/è dentro le scatole del nulla, tra scaffali/che non mettono più polvere».

Franz, che è in carcere anche se non c'è, che vive in un mondo a parte e non crede di parlare per altri che per se stesso, è crudelmente e splendidamente "noi", invece. Non lo sa, ma la chiave nella serratura di quel cosmo che lo angoscia, ha saputo girarla dalla parte giusta. Forse è lui a non comunicare con noi, ma noi troviamo in tutte le sue parole quello che non abbiamo mai avuto il coraggio di essere, provare, domandarci.

 

 

Susanna Schimperna

 

bottom of page